Andrea Antonini Berlin
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Il mio gommista di fiducia si chiama Aldobrando, vive e lavora in un paesino delle Dolomiti, un migliaio di abitanti perlopiù sparsi nelle malghe circostanti. È un ottimo gommista, e conveniente, fa pagare dieci euro per ogni pneumatico cambiato, equilibratura e convergenza comprese, e le gomme o gliele porti o le compri in internet e le fai mandare alla sua officina, risparmiando il ricarico che mettono i gommisti che sono anche venditori.
A ogni cambio gomme parte sempre un’oretta di chiacchierata, e tra una cosa e l’altra sono venuto a conoscenza di una storia di suo papà. Era nato negli anni Trenta, aveva sempre avuto una certa passione per la lettura e per le cose tecniche, e a metà anni Cinquanta decise che nella vita avrebbe voluto produrre microfoni. Una decisione già di per sé sorprendente in una poverissima economia valligiana fatta di rimesse dall’emigrazione, pastorizia essenziale e poche residue attività minerarie.
Ora, esistono vari tipi di microfoni: dinamici, a condensatore, a carbone eccetera, ognuno con sue caratteristiche proprie, ma il papá di Aldobrando decise che voleva costruire esotici microfoni a nastro, che ancora negli anni Cinquanta avevano una qualche diffusione, sia pure in rapida discesa. Erano fragilissimi e andavano fatti interamente a mano con precisione da orologiaio, così il mercato li stava rapidamente escludendo a favore di modelli meno complessi e costosi da produrre. Negli ultimi sessant’anni sono rimasti solo nel catalogo di un’azienda bavarese, che ricordo di aver letto tempo fa li continuerà a proporre finché la signora che li costruisce, dotata di mani uniche al mondo, non andrà in pensione. Adesso anche alcune piccole aziende, soprattutto americane, li hanno ritirati fuori a prezzi elevati.
Il microfono a nastro ha come cuore un sottilissimo nastrino di alluminio in grado di reagire al minimo spostamento d’aria, e il papà di Aldobrando si accorse presto che dal paesino in cui si trovava non gli era per niente facile procurarsi quella materia prima nella qualità richiesta. Avrebbe forse potuto segare le caffettiere Bialetti, ma la loro lega di alluminio non era adatta. Gli venne un’idea geniale, si ricordò che l’anno prima su una montagna non distante era precipitato un aereo militare, e che essendo un luogo impervio non tutti i pezzi della fusoliera di alluminio erano stati recuperati. E si trattava di alluminio avional, una lega quasi perfetta per i microfoni.
Si mise così a battere quella zona, difficile da raggiungere anche per un alpinista provetto, recuperando alluminio sufficiente ad avviare la produzione, che ebbe un certo successo. Vendette parecchi dei suoi microfoni anche a clienti istituzionali. Poi l’alluminio finì, o forse il guadagno non era granché, o forse si rese conto che il periodo d’oro del microartigianato elettronico postbellico era ormai finito: un artigianato di giovani tecnici spesso autodidatti che dal 1945 portavano a casa qualche soldo assemblando nelle cantine radio e altre piccole apparecchiature approfittando anche della grande quantità di surplus elettronico militare abbandonato dagli americani e venduto a pochi soldi da grandi stockisti. A qualcuno andò bene, nella sua cantina Carlo Vichi fondò la Mivar.
Il gommista Aldobrando dice di conservare qualche materiale prodotto dal suo papà, ma per un motivo o per l’altro non ha mai avuto voglia di mostrarmelo, e io ho smesso di insistere, avrà i suoi motivi.
In occasione di un altro cambio gomme, Aldobrando mi raccontò del suo amico Oreste, un tempo gettonato disegnatore di fumetti. Mi disse che un’estate di tantissimi anni prima, durante le vacanze aveva ambientato una storia proprio in quel paesino dolomitico in cui anche lui era nato per trasferirsi poi giovanissimo a Milano, riproducendolo con particolare precisione. Mi entusiasmai subito sia per la cosa in sé sia perché quando sento qualcosa di interessante mi viene subito in mente di cavarne un articolo, magari per un giornale locale. „Guarda“, mi disse, „so che il fumetto era poi uscito su quel settimanale…“, e mi fece il nome di un famoso periodico „ma non chiedermi di quale mese o anno perché non me lo ricordo proprio. Facciamo così, ti do il numero di Oreste e lo chiedi direttamente a lui“.
Chiamai. Rispose una donna. „Pronto buongiorno, mi chiamo Antonini, cercavo il signor… per via di alcuni suoi disegni, mi ha dato il numero il comune amico Aldobrando“. „Ma chi è lei, che cosa vuole, che cerca da mio marito?“. „Ecco, dicevo che mi ha dato il numero Aldobrando, cercavo delle informazioni su un fumetto di suo marito…“. „Fumetto? Mio marito non disegna fumetti da vent’anni, forse trenta, ma che cosa vuole?“. Ero già sfinito e stavo per metter giù quando Oreste prese la parola. Gli ripetei tutta la faccenda e lui disse che sì, si ricordava di quei disegni, ma che non aveva idea di quando fossero stati pubblicati. E che non capiva perché mi interessassero.
Si ricordava però bene com’era finita la sua carriera di disegnatore di fumetti. E me lo raccontò, forse per spiegare il modo burbero in cui ero stato accolto. „Sa, un giorno con passaparola io e altri collaboratori abbiamo saputo che la redazione del giornale per cui lavoravamo, anzi avevamo lavorato era stata abbandonata lasciando la porta aperta, così ci siamo andati per almeno recuperare le nostre tavole, qualcosa. Eravamo in quattro o cinque, ci siamo ripresi quello che potevamo, il materiale non ancora uscito che era abbandonato sui tavoli, non è che ci avrebbe fruttato i soldi che ci dovevano, ma almeno non lasciarlo lì“. Mi resi conto del perché ero stato trattato così male, anche se non c’entravo niente. Alla fine Oreste mi disse: „Guardi, se non fosse amico di Aldobrando le avrei sbattuto giù subito il telefono. Comunque facciamo così, mi lasci il suo numero che se trovo quel fumetto che le interessa la chiamo, tanto lei lo sa che non la chiamerò“. Risposi che certamente lo sapevo, che gli davo comunque il mio numero che poteva anche non scrivere. E ci congedammo cordialmente con la promessa di un futuro incontro montano dal gommista.
Capii benissimo Oreste. Quando io riuscii ad abbandonare la casa editrice di gran pregio per la quale avevo lavorato per otto anni prendendo parecchi calci in culo (lavoravo molto bene, pagavano benissimo e regolarmente, ma di pelle stavo sulle palle a capi e capetti), la prima cosa che feci fu di prendere tutti i libri di quell’editore, sia quelli che mi ero comprato in passato per conto mio sia quelli, molti, su cui avevo lavorato e buttarli via. Feci dei sacconi e li portai alla discarica. E da quel giorno in casa mia non entra neanche un opuscolo di quella gente. Le offese in generale si possono dimenticare, ma il lavoro è una faccenda molto intima, e le offese sul lavoro non si digeriscono. Quando il proprietario di quella casa editrice morì nella disperazione delle terze pagine dei quotidiani, io andai a farmi una pizza per festeggiare.
La storia del papà di Aldobrando, invece, è una delle tantissime di cui non si saprà mai niente. Non è una questione da poco, anzi è una faccenda che tiene impegnati da sempre gli storici: quali memorie vadano conservate e quali no, soprattutto nel campo tecnico, che per antico monopolio e bigotta prevaricazione delle discipline umanistiche è sempre stato considerato privo di importanza intellettuale. Come ho anche ben descritto nel mio articolo sulla vacuità di internet, il progresso umano passa solo in parte per i centri di ricerca delle università o nei laboratori di megalomani e abili venditori come Steve Jobs. Il progresso, che è il fondamento della civiltà umana, passa soprattutto per le menti e le mani di brillanti e attive persone che quasi sconosciute in vita, con la loro morte sono via via dimenticate. Forse è giusto così, ma non credo.
Ogni tanto fantastico di una qualche setta massonica segretissima che in grotte antartiche conserva tutto, o almeno tutto ciò che è stato prodotto, dai progetti industriali su carta agli oggetti finiti, dai cataloghi agli scontrini, così da tenere una memoria di ciò che è accaduto lungo l’esistenza dell’umanità. Se esiste mi candido come archivista.
(Copyright © 2022 Andrea Antonini, Berlino; ovviamente il gommista non si chiama Aldobrando e il disegnatore non si chiama Oreste, ma potrebbero chiamarsi così; l’aereo precipitato il 19 giugno 1957 sulle Dolomiti cadorine era un Republic F-84F Thunderstreak; nell’incidente morì il tenente pilota Giovanni Camana di ventisei anni).