Andrea Antonini Berlin
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Sin da piccolo ho una passione per le cabine elettriche, quei piccoli edifici a pianta quadrata alti sette o otto metri da cui partono o a cui arrivano cavi elettrici in gruppi di tre affiancati. Si incontrano facilmente nelle periferie dei piccoli centri o in aperta campagna e sono ignorate dai più.
(In realtà con cabina elettrica si indica qualsiasi locale destinato a punto di trasformazione o di distribuzione dell’energia elettrica. Nelle zone urbane le cabine sono spesso sotterranee o integrate negli edifici, mentre nelle zone industriali possono essere veri e propri edifici con annessa torretta. Qui parlo solo delle tipiche cabine elettriche italiane „a campanile“).
Il mio interesse per le cabine elettriche è nato per caso, quando verso i sette anni ho cominciato a notare gli isolatori di vetro o porcellana sui tralicci dell’alta tensione e sui pali delle condotte a media tensione. Ero rimasto affascinato dalle loro forme eleganti, ma soprattutto mi ero posto un problema: gli isolatori erano venduti alla società elettrica inscatolati uno per uno o erano forniti sfusi in scatoloni? Avevo domandato un parere a mio padre, il quale aveva risposto che gli isolatori erano venduti singolarmente ognuno nella propria scatolina, ma mi era sembrata una risposta poco fondata, e soprattutto compiacente, ché le cose per me dovevano e devono avere una loro scatola.
Nel tentativo di arrivare a un’opinione personale mi ero allora appropriato del binocolo da teatro di mia madre e in ogni occasione avevo preso a guardare in modo ravvicinato gli isolatori. Ma un binocolo da teatro non è molto potente e la mia ricerca non proseguiva. A un certo punto mi accorsi che i cavi spesso facevano capo a piccoli e sproporzionati edifici a prima vista un po‘ inquietanti, grigi e isolati dalle altre case, e che gli isolatori montati su quegli edifici erano a una altezza raggiungibile dal mio binocolo. La faccenda delle scatoline si rivelò lo stesso di difficile soluzione e tuttora non so se gli isolatori siano venduti singolarmente o sfusi, scoprii però il fascino delle cabine elettriche.
Hanno una porta che è chiusa, molto chiusa, si capisce che non è chiusa come tutte le altre porte chiuse, ma è proprio severamente chiusa. Qualcuno dovrà pure aprirla, se no perché l’avrebbero messa? Hanno spesso anche una finestra, che però è troppo alta per sbirciarci attraverso (da piccolo capii che serviva a dare luce all’interno e mi domandai come mai un luogo così pieno di corrente elettrica non fosse dotato di un lampadario).
I bambini solitari si creano volentieri un mondo di fantasia usando elementi della realtà, e le cabine elettriche entrarono a far parte del mio. Non solo le apprezzavo esteticamente, forse anche perché provocavano la stessa intrigante inquietudine di una diga o un cementificio ma in scala tollerabile, ma il solo interessarmene mi dava la sensazione di far parte di un giro di misteriosi addetti ai lavori.
Sono passati cinquant’anni e mi piacciono ancora. Nel frattempo ho scoperto a che cosa servono e come funzionano, e purtroppo sto anche assistendo al loro degrado: in Italia, i fili di rame che un tempo partivano dalla cabina bene ordinati a gruppi di tre (per via della corrente trifase) e distanziati uniformemente ora sono raggruppati in un cavo isolato gommato uguale alla prolunga dell’aspirapolvere. La parte in cui entravano i fili elegantemente sostenuti da isolatori su sostegni metallici è ora inutile e viene murata con mattoni senza neppure una mano di intonaco, e la prolunga entra da un foro qualsiasi foderato di plastica. Le cabine elettriche hanno perso la loro identità, i muri scrostati che un tempo aggiungevano loro dignità come le rughe di un vecchio marinaio sono diventati solo brutti muri scrostati.
Qualche tempo fa sono riuscito a procurarmi un volume uscito in seconda edizione nel 1927, La cabina elettrica, dell’ingegnere Giuseppe Finocchi. Un testo pieno di informazioni interessanti e utili a un restauratore di cabine elettriche storiche (consola qualche sporadico caso di recupero come quello di una cabina elettrica senese), e di immagini che probabilmente restano uniche nel testimoniare l’esistenza di cabine della prima ora demolite da decenni.
Il volume è interessante anche perché affronta, sebbene di sfuggita, un problema mai davvero risolto, ovvero se i manufatti tecnologici possano godere di una propria estetica peculiare o debbano essere in qualche modo integrati nelle forme urbanistiche o naturali circostanti. La risposta dell’autore è equilibrata: „… tanto più semplice e severo sarà lo stile di queste piccole costruzioni, tanto più esso si dimostrerà intonato allo scopo cui vengono adibite in quanto la serietà delle loro linee varrà da sola ad incutere nel passante quel senso di timore che simili edifici è bene suscitino. Una lesena agli angoli, qualche fascia in paramento a vista possono costituire tutto l’ornamento architettonico di questi minuscoli edifici […]. Solo in casi specialissimi nei quali la cabina venga innalzata in prossimità di costruzioni in istile si potrà, se ciò viene comunque imposto, cercare di intonarsi col resto delle costruzioni riproducendo con parsimonia qualche motivo architettonico nelle dette costruzioni dominante“.
La cabina elettrica è una di quelle cose che quasi nessuno considera nella loro bellezza e importanza. È un luogo nel quale la fantasia trova spazi accoglienti. È silenziosa (al massimo ronzante) e viva, e del suo benessere si occupano uomini invisibili che sanno quello che fanno e che preferiscono non mettersi in mostra.
Le cabine elettriche non vengono ristrutturate o rinnovate e non hanno finiture di pregio, non hanno bisogno di orpelli. Anche se nel corso dei decenni finiscono col trovarsi nel mezzo di un nuovo quartiere, nessuno osa metterle in dubbio: di certo incutono nei passanti quel senso di timore che l’ingegner Finocchi riteneva opportuno. Hanno una grande personalità.
Classica cabina elettrica italiana nelle forma degradata attuale, modellino in scala 1:87 prodotto artigianalmente dalla Salento Railroad
(Testo e immagini copyright © 2018 Andrea Antonini tranne l’immagine del modellino © Salento Railroad, riprodotta per gentile autorizzazione).