Brutti incontri con Rudolf Steiner

Rudolf Steiner è stato un tipico esemplare di esoterico positivista del suo tempo, tra metà Ottocento e gli anni Trenta del Novecento, quando grandi masse di pensiero genericamente orientali hanno invaso l’Europa inducendo le classi sociali più elevate a cercare di fonderle con le nuove frequenti scoperte scientifiche, con il solo risultato apprezzabile di utilizzare il linguaggio delle seconde per diffondere le prime. La teosofia fu il primo movimento di ampia diffusione di quel genere, e dalla teosofia si distaccò per l’appunto Steiner.

Il quale nella sua vita ha tenuto circa seimila conferenze su qualsiasi argomento, dall’architettura alla musica all’arte all’agricoltura alla pedagogia al comportamento da tenere da dopo morti, conferenze diligentemente trascritte e trasformate in libri che rappresentano il dettagliato riferimento per i suoi adepti. In rete trovate varie e approfondite descrizioni di lui e del suo movimento.

Il mio primo incontro con l’antroposofia risale alla fine degli anni Settanta. In una piccola sala nel centro di Milano erano spesso organizzate conferenze di natura misticheggiante assieme a concerti di sitar, strumenti musicali indiani micidiali e interessanti al tempo stesso. Decisi di seguire in particolare gli incontri con Mercedes Salimei, una signora dallo sguardo marmoreo che possedeva una forma particolare di autocontrollo: parlava con grande chiarezza oscillando senza sosta il capo da una parte all’altra della sala così da rivolgersi equamente verso tutto il pubblico. Parlava in particolare dei rapporti tra la salute degli organi corporei e le varie vicende cosmiche.

Le sue erano conferenze inutili ma gradevoli in una sala molto accogliente, così ne seguii diverse. Una sera mi venne il ghiribizzo di domandarle: „Scusi, ma lei da dove attinge tutta questa meravigliosa conoscenza?“. Non era una domanda maliziosa e la risposta fu assoluta: ci sono persone che sanno le cose e noi ascoltiamo quelle persone. E citò Rudolf Steiner come persona di rango in quel campo e in particolare certe cronache dell’Akasha che aveva riportato. Tentai di approfondire: „Sì ma come fanno a saperle?„. E lei accennò a passeggiate dei sapienti in regni superiori o in quelli dei morti o non so dove altro.

Oggi grazie a Wikipedia disponiamo di una esaustiva descrizione dell’Akasha:

Uno spazio simbolico fatto di etere, situato macroscopicamente nell’Empireo e microcosmicamente nel ventricolo sinistro del cuore, uno spazio in cui sono iscritte tutte le parole, le azioni, i pensieri dell’uomo, tutti gli esseri e gli eventi del mondo. Questo spazio, questo specchio magico viene letto dagli iniziati„.

Allora non disponevo di Wikipedia, quindi mi limitai a prendere atto e diedi per buona l’affermazione, qualsiasi cosa avesse voluto dire, cosa che ho peraltro fatto leggendo Wikipedia.

Una sera andai a un incontro dedicato al rapporto tra cosmo, musica e malattie varie. L’argomento mi riguardava direttamente (per la musica, non le malattie) e finalmente lo conoscevo concretamente. Tirando in ballo Pitagora, la musica delle sfere e altri luoghi comuni sulla musica la signora si imbarcò in discorsi senza capo né coda. Ma trattandosi perlopiù di affermazioni non verificabili, poteva anche andar bene. La conferenza proseguì stancamente con i collegamenti tra i piedi e il tale pianeta e il pancreas e non so più che asteoridi, ma il tracollo avvenne quando l’oratrice cominciò a dire che per via di questa e quella connessione cosmica, per curare che so, una malattia del fegato bisognava ascoltare musica con molti si bemolle o sol diesis, o quel che era. Con la coda dell’occhio vidi le smorfie perplesse di alcuni astanti. La descrizione dei collegamenti tra una certa nota e l’organo umano da risanare suo corrispondente si protrasse per una mezz’ora. Applausi.

Ora, se tu mi dici che tra i foruncoli e la luna calante c’è un rapporto di causa e effetto a me va bene. Mi va anche bene che mi racconti che in realtà i grandi compositori non compongono proprio niente, è il loro corpo astrale o eterico, non ricordo, che di notte se ne va a spasso, raccoglie la musica dei regni superiori di cui prima e poi la riferisce alla mente del musicista il quale la trascrive di getto pensando ingenuamente di averla composta lui. Ma tutta la storia delle musiche con abbondanza di certe note non aveva davvero senso concreto. Persino nel One Note Samba la nota cambia ogni tanto.
Finita la conferenza mi avvicinai alla Salimei esprimendo la mia perplessità. Dietro di me un signore prese coraggio e aggiunse: „Eh, appunto che vuol dire ’sta roba delle note?„. La signora si irrigidì e cercò di spiegare meglio un concetto che lei stessa con ogni probabilità non aveva capito. Mi fece improvvisamente pena e strizzando l’occhio all’altro uditore dubbioso (e se ne erano aggiunti altri in crocchio) mi venne da salvarla dicendole che forse lei intendeva che sono da preferire determinate tonalità musicali, per venire incontro a determinati disturbi fisici. Non aveva senso lo stesso, ma lei accolse l’aiuto e disse che era proprio così.

Decisi che ne avevo abbastanza di ascoltare sciocchezze e smisi di frequentare le conferenze in via Dei Piatti. Diversi anni più tardi mi ritrovai a fare una passeggiata di distrazione in centro assieme a una amica la cui giovane mamma stava morendo di tumore. In una vetrina notammo un libro sui tumori scritto da quella stessa signora delle conferenze. Con qualche titubanza finimmo per prenderlo, si sa che di fronte alle malattie più spaventose anche sognare di guarigioni impossibili a volte è di conforto, soprattutto se hai venticinque anni.

Il libro era una specie di spiegone del perché ci si ammala di tumore. Ora lo ricordo a grandi linee, sostanzialmente diceva che commettendo un certo tipo di errore a una certa età, quell’errore si sarebbe trasformato in cancro passato un certo periodo in certo senso speculare, ovvero più precoce l’errore (spirituale, di alimentazione, di comportamento, non ricordo), più tarda la malattia. E non c’erano santi, la malattia sarebbe arrivata punto e chiuso, al massimo si sarebbe potuto assumere qualche palliativo. In privato uno può scegliere la cura che crede, uno che conoscevo assumeva succo di cipolla contro il suo tumore alla prostata, mio nonno succo di limone, morirono entrambi ma sarebbero morti lo stesso. Scegliersi la cura è anche un ultimo atto di affermazione personale prima di finire intubati, e come tale va rispettato. Peraltro una mia amica si rifiutò trent’anni fa di farsi operare e sta ancora benone, un mio caro amico è morto un mese fa alla fine di una terapia devastante dichiarata di successo. Ma un conto sono le scelte private, un conto i libri di quel genere, che sarebbe meglio non pubblicare. La poca simpatia che mi era rimasta per la Salimei svanì in lieve disprezzo.

Il mio secondo e d’induzione terzo incontro con Steiner e l’antroposofia avvennero un paio d’anni dopo. Una mia conoscente mi aveva segnalato che in una delle scuole steineriane di Milano cercavano un insegnante di musica. Essendo una scuola privata, poteva scegliere liberamente i docenti e mi presentai. Fui accolto in una sala con al centro un enorme tavolo presieduto da una arcigna signora anziana, riverita con evidenza da tutti i presenti. Fui squadrato e interrogato e alla fine mi dissero le faremo sapere.

Il giorno dopo mi telefonarono: mezzo consiglio scolastico si era espresso a mio favore, l’altra metà a favore di una ragazza che conoscevo. Si era dunque deciso che avrei insegnato nelle classi di cui erano responsabili i professori a mio favore e l’altra candidata nelle altre classi. La cosa non era molto conveniente, la scuola era in culo al mondo e avrei dovuto attraversare la città e impegnare la mattinata per magari una sola ora di lezione, alla fin fine il guadagno era proprio misero. E non solo: alla fine dell’anno scolastico le prestazioni mie e dell’altra sarebbero state confrontate e il consiglio scolastico avrebbe deciso chi tenere dei due. Mettere contro due poveretti come noi era moralmente eccepibile, ma così stavano le cose, prendere o lasciare.

Telefonai alla collega, la quale era incazzata quanto me, ma mi disse con sincerità che era talmente disperata per i soldi che comunque aveva accettato e che sperava di ottenere lei l’incarico definitivo.

Non andò bene da subito. I professori erano tutti persone notevoli e animate da una vera passione per l’insegnamento. Era un liceo e i ragazzi all’esame di maturità prendevano spesso il massimo dei voti da privatisti, il che denotava una preparazione d’eccezione. Solo che io non ero per niente steineriano, avevo letto alcuni libri di Steiner, ma non mi avevano né commosso né irritato, avevo preso nota delle sue affermazioni e tanti saluti. E però da insegnante mi toccava entrare per forza in quel mondo, inciampando di continuo. Non mi faceva bene alla salute, e probabilmente tanto meno fece bene alla collega rivale, che dopo qualche giorno rinunciò all’incarico in seguito a un non ben chiarito crollo nervoso.

Ora, fin quando si trattava di insegnare qualche canto ai ragazzi – l’avevo presa di petto con i corali luterani e tutti erano contenti – andava bene. Ma come avrei fatto a parlare della storia della musica, che pure era parte del programma (steineriano, non quello ministeriale) senza far sentire almeno qualche esempio? Chiesi al professore mio referente se avrei potuto portare un registratore in classe come morigerato ausilio didattico. Fui fulminato.

Ma professore…„, disse con sguardo allarmato.
Sì?„.
Ma lei non può portare un registratore in classe…„.
Ah capisco, impostazione didattica„.
Ma no che c’entra, ma devo ricordare proprio a lei che l’elettricità che alimenta il registratore è un veicolo arimanico?„.

Annuii scusandomi per la grossolana dimenticanza che cercai di attribuire al mio eccessivo entusiasmo, e la conversazione finì lì. Si trattava solo di capire chi cavolo fosse Arimane, lo domandai allora all’insegnante d’arte che mi sembrava meno permaloso, il quale mi spiegò che si trattava di una entità malvagia il cui compito era di ingannare gli uomini con il materialismo. Parola di Steiner (conferenza del primo novembre 1919). Perché la corrente elettrica fosse un suo vettore non mi fu spiegato e io rinunciai a domandare come si potessero tollerare le lampadine a scuola.

Quell’insegnante era uno scultore mi pare siciliano che subito cominciò a entusiasmarsi all’idea di una collaborazione lui e io, al fine di creare un’opera in gesso che raffigurasse la tonalità maggiore, gli brillavano gli occhi mentre scolpiva la sua idea nell’aria. Dopo un minuto non ne potevo più di quello che mi appariva come un delirio cui non avrei mai voluto partecipare. Per le lezioni dovetti gioco forza studiarmi a casa trascrizioni al pianoforte di opere orchestrali per poter fare concreti esempi musicali, che finché è una sinfonia di Mozart va be‘, ma con la Sagra della primavera è un casino, tutte ore non pagate. A un ragazzo dallo sguardo sempre triste e palesemente annoiato dai corali bachiani un giorno regalai una cassetta con Nursery Crime dei Genesis, di nascosto ovviamente. Penso il mio migliore contributo alla pedagogia steineriana

Non poteva funzionare con quella scuola, ma non mi sentivo di rinunciare sia per i pochi seppur raddoppiati soldi sia per principio. Sta di fatto che cominciai a sviluppare sintomi spiacevoli, nausee, capogiri, sensazioni di straniamento. Un giorno lungo il tragitto da casa mi persi, e improvvisamente non riconobbi il luogo in cui mi trovavo e che in verità conoscevo benissimo. Ora direi a quel ragazzo incastrato in un lavoro e in un mondo che non è il suo di scappare e di fare il pony express se proprio proprio, ma allora ritenni che il mio disagio fosse solo mancanza di nerbo. Per cercare qualche sollievo dai piccoli malanni palesemente psicosomatici mi rivolsi allora a un medico omeopatico che in passato mi aveva risolto un problema di pressione bassa, il quale saputo che insegnavo alla scuola steineriana mi disse con certezza: „Ma allora ti mando dalla dottoressa… che ha lo studio in fondo al corridoio, è omeopata steineriana, vedrai come ti sistema!„.

Ancora, oggi direi a quel ragazzo di scappare, di andare da Burghy a curarsi con un piattone di patatine fritte, ma ritenni coerenza morale rivolgermi alla dottoressa, la quale in effetti mi sistemò, diciamo così. A scuola mi avevano concesso una sorta di aspettativa, al di là dell’antroposofia erano persone gentili.

La dottoressa stabilì che avevo bisogno di certi prodotti dalla Weleda, una ditta svizzera dai prezzi elevati. Non erano preparati omeopatici, ma non so più che misture di erbe, non da assumere: una andava passata sulla faccia, con un’altra dovevo fare impacchi e via così. I profumi erano buoni ma assurdi nella situazione: ricordo in particolare una essenza di rosmarino da passarmi su tutto il corpo che mi trasformava in un pollo da infornare, la presi con filosofia, ma non cambiava niente, anzi i sintomi si facevano sempre più insistenti e cominciavo a sentirmi depresso. Invece che scappare finii per andare ogni dieci giorni dalla dottoressa, la quale si espandeva sempre più dandomi anche consigli di vita tutti tesi a ridimensionarmi, diceva. Non avevo un soldo, vivevo in una casa senza mobili perché non potevo permettermeli, guidavo una 500 di terza mano e dovevo ridimensionarmi. A ogni seduta si aggiungevano un paio di costose boccette Weleda e le cose comunque non cambiavano. Un giorno la dottoressa invece di mollare il colpo e prescrivermi una scampagnata annunciò che il mio caso era così mal messo da necessitare di sedute di euritmia terapeutica. L’euritmia è una forma di movimento fisico ritmico ovviamente inventato da Steiner, in certo senso affine alla danza. Serve a riequilibrare eccetera. Avevo visto sedute di euritmia, con gente che beatamente ballava non so bene che cosa accompagnata dal pianoforte suonato da un mio conoscente. Sembrava una faccenda tutto sommato divertente, mi ricordava il balletto della zia di Forlì, ma la mia era euritmia terapeutica, roba forte e individuale. Mi presentai alla prima seduta: una sorridente signora mi porse una sfera di legno. Mi disse di prenderla e pronunciare contemporaneamente un „bah“ sussurrato. Era estasiata ascoltando il proprio e il mio bah. Passai mezz’ora scambiandomi la sfera con la terapeuta. Bah. Sessantamila lire, alla prossima settimana.

Riferii alla dottoressa del supposto buon esito del primo incontro e lei mi comunicò che era anche arrivata l’ora di passare a una terapia medicinale d’urto. Avrei dovuto comprare non so più che preparato omeopatico, e iniettarmelo da me sotto pelle.

Quella sera andai alla farmacia in corso Beunos Aires che teneva preparati omeopatici e le apposite siringhe ipodermiche. Il farmacista, penso il dottor Ambreck in persona, era un po’ perplesso e mi disse con tono affettuoso che lui quel tipo di iniezioni non se le sarebbe mai fatte manco morto, credo volesse in qualche modo dissuadermi senza essere pressante. Ma io ormai ero in un’altra dimensione dello spirito. Le siringhe assomigliavano a quelle per i diabetici e la cosa mi creò una sorta di sgradevole confusione mentale, perché mentre il farmacista cercava le cose per me entravano a raffica i tossici che chiedevano „un’insulina“ e da un cesto si portavano via una siringa a testa per il buco, senza pagarla. „Almeno non crepano di Aids“ mi disse il farmacista vedendomi disorientato. Un mondo orrendo e disperato, e per qualche istante mi sentii oscuramente tirato dentro anche io, con le mie boccette e le mie siringhe del cavolo.

A casa mi misi sul letto, alzai la maglietta e mi feci l’iniezione nella pancia, come prescritto. Subito seguirono tremori in tutto il corpo che divennero in pochi secondi vere e proprie convulsioni. Ero terrorizzato, ma per fortuna la cosa durò poco meno di un minuto. Chissà, avevo toccato qualche recettore nervoso o più probabilmente ero saltato in aria per lo stress, oltre tutto allora come oggi svengo solo a vederla, una siringa. Andai in cucina, radunai le boccette in numero di diciassette, le fotografai come monito per il futuro e buttai via tutto. Per spalmarmi di rosmarino e andare dal medico steineriano avevo speso più di 400mila lire, due mesi di affitto. Non chiamai neanche la scuola per dire che se ne andassero a fanculo loro e Arimane e mi ripromisi di non avere mai più niente a che fare con Steiner e l’antroposofia. I disturbi scomparvero.

Ma un’ulteriore ultima volta, con Steiner ci ho avuto a che fare. A metà anni Novanta mi toccò verificare i dati contenuti in un saggio di filosofia economica, opera di un noto giornalista del tempo, steineriano militante. Il quale aveva citato anche il suo beniamino spirituale e io dovevo verificare la fonte, solo che il libro citato era introvabile anche nelle biblioteche e non si poteva interpellare l’autore per dirgli che non ci si fidava delle sue trascrizioni (peraltro quasi tutte sbagliate). Scovai un’associazione culturale che possedeva il testo e andai da loro per la collazione. Sapendo quale autore stavo seguendo, la segretaria steineriana dell’associazione mi accolse con calore. In quei mesi si discuteva in parlamento se anticipare a cinque anni la prima elementare, e quel giornalista aveva proprio quel giorno pubblicato un articolo di forte opposizione alla proposta. La signora, certa di avere di fronte un sodale mi disse: „Ha visto che bell’articolo ha pubblicato oggi il nostro…„. Risposi che sì, l’avevo letto, ma che mi era sfuggito il motivo di una tale veemenza contro l’anticipo a cinque anni della prima elementare. Come già tempo prima il professore, la signora si rabbuiò delusa. „Ma come, scusi, a cinque anni la dentizione non è completa, vuole insegnare a leggere e scrivere a un bambino in quelle condizioni?!„. Una delle tante idee steineriane campate in aria. Ebbi la tentazione di dirle che avevo imparato a leggere a quattro anni e che tutto sommato stavo bene, ma trattenni il mio piccolo orgoglio e ancora una volta per tagliar corto mi scusai per la mia inconsistenza mentale.

L’antroposofia mi sembra una insidiosa presa in giro benché in buona fede. Insidiosa perché come tutte le filosofie o religioni dense di regole senza reale fondamento, che sia pratico o storico o filosofico, ha facilità a far presa sulle persone disorientate. Il fatto che sia (o fosse, non so) spesso abbracciata da ricchi ambienti altoborghesi le garantisce anche una certa autorevolezza sociale, in molti ricordiamo fra gli studenti steineriani i figli di Berlusconi. Va detto che nella scuola di cui ho raccontato i ragazzi non subivano alcun genere di indottrinamento esoterico, il sostrato ideologico era loro quasi completamente opaco, salvo che per le raccomandazioni alle famiglie di escludere i figli dalla televisione e dai primi computer. Però ricordo una riunione di insegnanti in cui fu deciso di raccomandare ai genitori di un ragazzo di toglierlo dalla scuola per un anno e mandarlo a lavorare in una delle aziende agricole di famiglia (a proposito di ambienti danarosi) in quanto bisognoso di non so che nuovo equilibrio. La cosa mi parve scorretta, la scuola deve insegnare e in certa misura adattarsi ai ragazzi, non decidere dei loro equilibri spirituali.

Non ho problemi a prender per buoni la cristalloterapia e i fiori di Bach, le storie astruse della Bhagavad Gita, e i sutra di Patanajali tradotti da non si sa che lingua. Sono assolutamente convinto dell’efficacia dell’omeopatia a meno che tu non abbia una polmonite e tutto sommato mi sono simpatici gli Hare Krishna, che negli anni Ottanta del secolo scorso mentre mangiavi nel loro ristorante vegetariano di via Val Petrosa arrivavano con il microfono di Radio Krishna Centrale e ti domandavano a bruciapelo che ne pensavi di Dio. Con la bocca piena risposi che Dio era una figata e il conduttore del programma ne fu soddisfatto. Ma Steiner esprime una pesantezza sinistra, ricolma di eventi minacciosi, descrive un mondo da cui difendersi, non in cui vivere al meglio. Negli anni Settanta e Otttanta mi sono fatto una immensa cultura di esoterismo spicciolo sui libri delle Edizioni Mediterranee e quelli di Astrolabio e dei tantissimi editori del genere, frequentando sempre con piacere la libreria Esoterica un tempo nel mezzanino della metropolitana di San Babila e poi in piazza Missori. Il padrone della libreria è scomparso da poco, si rifiutava di mettere l’appiccichino sul prezzo dei libri da regalare: „Ti arrangi! Siamo ormai nell’età dell’acquario e tu ancora ti vergogni dei soldi?!„. Testi tra l’appassionante e il ridicolo, ma Steiner proprio no.

Tuttavia Steiner è sempre stato una faccenda tutto sommato di nicchia. Colui che con un analogo minestrone di impostazione razionale, scritti di Goethe, tradizioni orientali, buone intuizioni non sviluppate e grandi dosi di moralismo prescrittivo ha davvero raggiunto un grande successo sociale a parer mio combinando non pochi danni è stato Carl Gustav Jung, di cui avrò modo di parlarvi con competenza partendo dal mio brutto incontro durato ben tre anni con una psicologa jungiana, anche lei una brava persona immersa in un universo di idee assurde sperimentate sul prossimo.

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